La narrazione si avvia con il racconto di un episodio personale legato alla morte del promesso sposo dell’autrice. Il dolore segna gli anni di frequentazione della scuola Normale e i primi di insegnamento. Nel 1895 si diploma e le viene assegnata una cattedra in un istituto pareggiato, in cui insegna a una prima classe di 14 bambine: nonostante i buoni risultati viene licenziata perché, secondo l'autrice, non fa regali al direttore. Passa poi in un istituto privato maschile (il cui nome non viene specificato) dove «la scuola era una stanza quasi buia, i banchi toccavano la cattedra; alle pareti qualche quadro tutt’altro che educativo, niente lavagna, niente calamai e per registro un pezzo di carta» (p. 16). Si trova a disagio e incapace di instaurare buoni rapporti con gli alunni. Il lavoro la impegna dalle 9 alle 19, con 63 alunni, per uno stipendio di 20 lire al mese che fa affermare all'autrice: «sventura insegnare in una di queste scuole private [...] tutto apparenza di fuori mentre dentro ha il marcio» (p. 18). Dopo la scelta di spostarsi a Modena, le viene assegnata una classe seconda maschile di 36 alunni, uno dei quali ha il medesimo nome del defunto promesso sposo. Questa coincidenza la spinge a confidarsi con il Direttore che comprende il suo dolore e le consente in questo modo di trovare la strada per diventare un'insegnante accogliente e motivata. L'autrice fa riferimento all’accoglienza di alunni con disabilità: «a volte abbiamo dinanzi bambini in uno stato veramente patologico e per questi essere dovrebbero funzionale delle apposite scuole ma fino a che queste non ci saranno potremo noi abbandonare a se stessi questi piccoli infelici?» (p. 24). Si scaglia infine contro chi pensa di intraprendere il mestiere di maestra solo per avere un guadagno dignitoso e riafferma la visione dell'insegnamento come missione da svolgere attraverso una volontà di istruire ed educare dettata dall'affetto verso gli alunni.